Memoria e nostalgia: “Demetrio e Polibio” al Teatro Rossini per il ROF


di Andrea Zepponi

19 Ago 2019 - Commenti classica, Musica classica

“Demetrio e Polibio” al ROF. Le componenti musicali e vocali esaltate grazie al lavoro profondo e intelligente di adeguamento alle intenzioni della partitura della regia di Davide Livermore ripresa da Alessandra Premoli. Straordinari gli interpreti. Entusiasmo e successo garantito.

DEMETRIO E POLIBIO (1811)

  • Direttore Paolo Arrivabeni
  • Regia Davide Livermore
  • Ripresa della regia Alessandra Premoli
  • Scene e costumi Accademia Di Belle Arti di Urbino
  • Luci Nicolas Bovey

Interpreti

  • Lisinga – Jessica Pratt
  • Demetrio – Siveno Cecilia Molinari
  • Demetrio – Eumene Juan Francisco Gatell
  • Polibio – Riccardo Fassi 
  • Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini
  • Maestro del coro Mirca Rosciani
  • Filarmonica Gioachino Rossini

Con il sostegno di Sistemi Klein. Produzione 2010

Nel quarantennale del ROF vengono celebrati i due estremi della vicenda artistica compositiva italiana di Rossini, Demetrio e Polibio (1812) / Semiramide (1823), alfa e omega anche di una moderna vicenda filologico-interpretativa che ha ricreato il modo di eseguire Rossini ai nostri giorni, ma se il secondo titolo non presenta problemi di autenticità e di completa attribuzione (il prezioso manoscritto rossiniano è alla Fenice di Venezia), del primo non esiste l’autografo dell’autore eccezion fatta per il quartetto del second’atto Donami omai Siveno di cui Rossini tenne cara la memoria insieme al duettino del prim’atto Questo cor ti giura amore. La revisione sulle fonti della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi e a cura di Daniele Carnini ripropone la problematicità del testo originale e della concezione compositiva dell’opera lirica ai tempi prerossiniani cui lo stesso Pesarese si trovò a far fronte: la creazione era troppo spesso soggetta a interazioni, interpolazioni e intromissioni da parte di esecutori e impresari in un contesto di convenienze anche commerciali e il compositore, ancorché genio, doveva fare i suoi conti con protettori, primedonne e promotori della sua opera come in questo caso il bolognese Domenico Mombelli dal quale il Pesarese diciottenne venne sollecitato a comporre Demetrio e Polibio, dalla paludata trama di sapore metastasiano con sovrani spodestati, rapimenti e agnizioni, fin dall’autunno del 1810 su libretto della moglie Vincenzina Viganò Mombelli destinando alle figlie cantanti Anna ed Ester la sua prima esecuzione che sarebbe avvenuta poi solo nel 1812 al Teatro Valle di Roma.

La versione eseguita il 12 agosto scorso al Teatro Rossini ha riproposto l’allestimento del 2010 con la regia di Davide Livermore ripresa da Alessandra Premoli e con le scene e i costumi dell’Accademia di Belle Arti di Urbino basato su una idea efficace e suggestiva, quella di ambientare l’azione in un teatro attuale abitato da fantasmi gentili in costumi stile impero e visitato da tecnici e operatori moderni che si sorprendevano di trovare indizi di presenze spiritiche nel teatro vuoto; l’ottimo impiego delle luci, ottenute anche tramite fiammelle accese sul palmo della mano degli interpreti con appositi dispositivi, innescava un gioco metateatrale di diversi piani dimensionali fatti di penombra e chiaroscuri molto efficaci al senso di remota lontananza dell’esordio operistico rossiniano in pieno neoclassicismo. Non priva di una certa ironia garbata nel far interagire i personaggi-fantasma come doppi degli interpreti solisti con tecnici del fuoco, operatori di sicurezza e mimi raffiguranti attori e danzatori del teatro in procinto di andare in scena o dopo una esibizione, la regia faceva fuoriuscire gli interpreti da assemblaggi di casse da trasporto di suppellettili sceniche che configuravano strutture complesse a gradini, rialzi e piedistalli praticabili con varie funzioni significative durante lo spettacolo. Anche i costumi erano accurati ed evocativi in entrambe le dimensioni rappresentate sulla scena e diventavano parte integrante della scenografia quando il guardaroba di abiti d’epoca sul palcoscenico fungeva da separé, quinta e sipario che permetteva l’illusione dello scambio continuo tra i solisti e loro doppi. Le componenti musicali e vocali ne venivano esaltate e trovavano il loro dovuto risalto scenico grazie al lavoro profondo e intelligente di adeguamento alle intenzioni della partitura.

Su questi parametri di collaudata qualità registica e scenografica si sono mossi gli interpreti dell’opera: la stratosferica e potenziata Lisinga di Jessica Pratt nella frastagliata tessitura del ruolo coronata di acrobazie sovracute aggiunte fino alla sbalorditiva esibizione nella grande aria Superbo, ah! tu vedrai, ha ritrovato la sua sede naturale di soprano lirico leggero dal gesto autorevole; il Siveno-Demetrio del bel mezzosoprano Cecilia Molinari dalla vocalità piena e flessibile, ha la morbidezza e il velluto che fanno sognare senza nulla togliere al virtuosismo come ha dimostrato fin dalla prima aria Pien di contento in seno (si ritrova come brindisi alternativo di Pippo in Gazza ladra) e restituisce il personaggio en travesti a quella tenerezza un po’ melanconica tipica del primo Rossini; straordinario per bellezza di timbro e qualità di emissione il Polibio del basse-baritone Riccardo Fassi, non ha fallito un colpo delineando il lato paterno e affettuoso del ruolo senza nulla perdere in autorevolezza come figura regale  configurandosi come felice nuova acquisizione del festival pesarese; meraviglioso per chiarezza di dizione e pienezza vocale, oltre che di qualità sceniche, l’Eumene–Demetrio del tenore Juan Francisco Gatell, che ci conferma la tendenza del ROF a preferire vocalità tenorili piene e pastose piuttosto che leggere. Accanto ai solisti il Coro delTeatro della Fortuna M. Agostini affinato e denso nella compagine maschile, grazie alla squisita preparazione e direzione di Mirca Rosciani, e il M.o Paolo Arrivabeni che ha richiesto all’Orchestra Filarmonica Gioachino Rossini una densità timbrica e di suono volta a supportare qualche ingenuità nella partitura dovuta o a un Rossini esordiente, ma già dotato di spiccata personalità e stile proprio, oppure (cosa più probabile) a inserti di pugno altrui; la bella sinergia, che alla fine ha determinato il successo della serata, di quanto succedeva tra palcoscenico e orchestra, con la sensazione di ritrovare qualcosa di inaudito e di straordinario, ha quasi riportato per poco più di due ore il Teatro Rossini di Pesaro ai momenti esaltanti delle prime ore memorabili del ROF 1980 quando la gioia della riscoperta si sommava all’entusiasmo di una città nell’esprimere se stessa attraverso Rossini e le sue opere: questo ha percepito il pubblico di allora e ne ha decretato la gloriosa memoria.

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