Un grande “Barbiere” secondo il grande Pizzi al ROF 2018


di Andrea Zepponi

22 Ago 2018 - Commenti classica, Musica classica

L’ulteriore autorevole contributo di un sommo regista della lirica alla rilettura sempre più consona allo spirito originario del capolavoro rossiniano è quello offerto alla edizione del ROF 2018 al Barbiere di Siviglia di scena all’Adriatic Arena di Pesaro dal 13 fino al 22 agosto. Quanto l’opera, considerata il vertice esemplare del buffo assoluto, abbia avuto bisogno di revisioni filologiche per togliere le sovrastrutture musicali e perfino ideologiche che ne avevano guastato il profilo originale, lo dimostra il lavoro scientifico iniziato da Alberto Zedda già a partire dal 1959 e proseguito con rigore scientifico al deflagrare del Rossini Opera Festival come laboratorio interattivo di musicologia applicata in stretta intesa con la Fondazione Rossini e Casa Ricordi. Ebbene questa mole di lavoro filologico, oltre a restituire al Barbiere una veste musicale più sobria e classicamente levigata, ha rivelato che poi così tanto buffa l’opera non è, cosa di cui già si erano accorti, in precedenza e in tempi sospetti, solo grandi interpreti, prima fra tutti Maria Callas la quale faceva emergere nel personaggio di Rosina un fondo decisamente “dark”. Una tradizione esecutiva ben poco critica aveva spianato l’interpretazione della partitura sul registro monocorde di opera assolutamente buffa banalizzando la lettura musicale e deformando il carattere dei ruoli per cui il Conte diventava un damerino senza midollo, Rosina una specie di oca-civetta, Bartolo un vecchio ciabattone, Basilio un viscido pretastro sudaticcio, Figaro un simpatico furfante, ecc. Invece niente di tutto questo: la rilettura filologicamente illuminata rende giustizia alla profondità e ricchezza della creazione rossiniana che rimane pur sempre un’opera comica di carattere, con la musica dotata della divina astrattezza propria del sommo pesarese, ma con una nuova dignità estetica ed etica da riattribuire a tutte le sue componenti. Così la regia di Pier Luigi Pizzi, in questo nuovo allestimento compie anche sul versante registico, scenografico e costumistico quanto è avvenuto in mezzo secolo di filologia e lo porta alle sue estreme conseguenze epurando lo spagnolismo di maniera e delineando una dimensione classica, nitida e lineare. L’aspetto prevalente è bicromatico: il bianco regna sullo sfondo e sulle strutture sceniche più grandi, mentre spicca il nero di certi costumi da cui si ravvisa l’intento di conferire simbolicamente sfumature caratteriali al personaggio come contrasto dicotomico giocato su una  dialettica cromatica. Su questa tavolozza, le macchie di diverso colore – il mantello rosso del Conte, i cambi di mise azzurra e verde di Rosina, quella in rosa antico di Berta, il nero totale della redingote di Basilio e quella in viola di Bartolo – assumono un surplus di senso che concorre a raccontare, proprio come vuole Rossini, qualcosa di non esplicito sulla scena, ma sottinteso che deve essere integrato dall’intelligenza di uno spettatore stimolato a comprendere, a giudicare e infine a valutare: ogni ruolo ha un carattere evidente giocato sulla dicotomia esterna del tipo nuovo / vecchio = spirito borghese di Figaro / mondo antiquato di Bartolo, ma si tratta di persone che vivono anche una loro dicotomia interna, il che rende tutti i ruoli molto meno buffoneschi e più problematici, sicuramente più veri e interessanti di quanto ce li abbia consegnati la tradizione teatrale tardo ottocentesca con il suo anticlericalismo di maniera. Non più le solite gags volgarucce e smaccate, ma invenzioni sceniche organiche e funzionali ad un approfondimento dei valori testuali e del tessuto drammatico: la erre uvulare di un Don Bartolo elegantemente burbero, un Don Basilio per nulla satanico e più umano, afflitto per giunta da balbuzie, la trovata esilarante di accorciare l’altezza del Conte con un Don Alonso naniforme e sibilante che cammina ingegnosamente sulle ginocchia dotate di finte scarpe, una Berta complice e quasi alter ego nostalgico di Rosina sono tratti che strappano non solo il sorriso e la risata, ma fanno anche riflettere sul fatto che soltanto le grandi letture registiche sono veramente libere e creative perché lavorano in profondità, ben consce ed osservanti delle fondamenta testuali e musicali di un’opera lirica cui ridanno vita perché ne studiano le origini e le ragioni artistiche. Passi allora un Figaro che, durante la cavatina di sortita, si spoglia sopra e sotto per darsi una sciacquata nella fontana della piazza, passi allora il figurante (William Corrò, lo stesso incisivo interprete di Fiorello e dell’Ufficiale) che, nell’ancor più improbabile lezione di musica, suona virtualmente un violoncello invece del “Pian:forte” prescritto da Rossini per simulare in scena un sostegno musicale al canto di Rosina, passi l’arbitraria aggiunta testuale – dovuta a “riscrittura di scena”, a qualche oscuro scoliasta ? Se qualcuno sa, prego mi illumini – nel bel mezzo del duetto All’idea di quel metallo: “Ci daranno le divise!” interpolata da Figaro come chiosa alla battuta del Conte È mio amico il colonnello che segue quella dello  stesso barbiere È in arrivo un reggimento, passino infine i rumori sulla musica provocati da gesti o da interiezioni di alcuni interpreti, ad esempio quello del cucchiaio che Berta agita nel bricco della cioccolata servita a Rosina durante la cavatina, come concessioni alle tendenze deformanti, destrutturanti e degradanti dell’odierno mainstream registico. L’atmosfera di nitore classico e bellezza che si respirava per tutto il tempo dello spettacolo alla prima del 13 agosto scorso, emanata anche dalle diegetiche luci del regista collaboratore Massimo Gasparon, immergeva ogni evento scenico in una luce nuova, esaltante corroborata dal gesto direttoriale sicuro e ben attestato su scelte di assoluta trasparenza ritmica e timbrica del M. Yves Abel: calibratissimi piani sonori tra palcoscenico ed orchestra, tra coro e solisti hanno soddisfatto l’esigenza di chiarezza classica e l’equilibrio della scrittura strumentale rossiniana nuovissima per il suo tempo. Un cast variegato di conclamate glorie della lirica e di giovani leve non meno valorose ha rappresentato anch’esso il divario fra vecchio e nuovo ipostatizzato dall’opera, quasi rievocando quello fra la tradizione musicale ininterrotta del Barbiere e la sua ricezione filologica odierna, in primis con la presenza di Elena Zilio in una Berta mezzosopranile, purtroppo ahimè calante nella puntatura finale de Il vecchiotto cerca moglie, ma straordinaria cantante attrice, molto più che una caratterista, con un volume vocale enorme e una verve timbrica ancora intatta, con Pietro Spagnoli e Michele Pertusi rispettivamente in Don Bartolo e Don Basilio, due pilastri storici del ROF versatilissimi nel reinventarsi vocalmente e scenicamente, il primo irresistibile con l’aria arcaizzante Quando mi sei vicina, cantata tutta in falsetto alla castrato Caffariello e il secondo con la consueta verità timbrica e dinamica in un un Basilio più dignitoso del solito, ma con esiti non meno comici; indi sull’altro fronte con la presenza in Figaro di Davide Luciano, artista calato perfettamente nella fisicità del ruolo, effervescente nel prendere possesso del palcoscenico, riempirlo di sé e nel prorompere di doti canore al guinzaglio di una solida tecnica che gli permette con tutto lo stile dovuto di donare Sol acuti senza sforzo apparente; quella di Maxim Mironov nella parte del Conte, al netto di una voce tenorile perfetta e una dizione italiana curatissima capace di flessibilità maestosa e di dare al personaggio il contegno di un Grande di Spagna – applauditissimo nell’aria finale Cessa di più resistere – che si diverte goliardicamente in travestimenti esilaranti, ma, da amoroso qual è, non esita, secondo questa regia pizziana, ad abbassarsi a detergere le estremità della ragazza che ama, quella Rosina interpretata dal mezzosoprano Aya Wakizono, innegabilmente esaustiva nella parte dal punto di vista vocale, duttile nelle agilità e nella resa espressiva – affiatatissima con baritono e tenore nei duetti, dal profilo spiccato nelle scene di insieme, misurata nella dizione italiana e nei passaggi di belcanto, ma con una compenetrazione nel ruolo non ancora così naturale e spigliata come sarebbe necessario dal punto di vista scenico. Espressivo e ben inquadrato sulla tradizione così epurata, l’Ambrogio di Armando De Ceccon.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, il Coro del Ventidio Basso preparato dal M. Giovanni Farina hanno brillato per duttilità e rispondenza all’habitus esecutivo dell’opera restituita al suo spirito originario anche da Eugenio Della Chiara che ha eseguito la parte di chitarra nell’aria Ecco ridente in cielo ripristinata da Zedda, mentre la serenata Se il mio nome era accompagnata direttamente sul palcoscenico dal bel talento di Davide Luciano.
Un pubblico conquistato dalla bellezza, con addosso la sensazione di aver assistito ad un archetipo irripetibile, al compimento di una catarsi artistica, ha applaudito tutto lo spettacolo, tutti gli esecutori e, alla fine, ha tributato per il M. Pizzi un’ovazione memorabile.

IL BARBIERE DI SIVIGLIA
ADRIATIC ARENA
13, 16, 19 e 22 agosto, ore 20.00
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Edizione critica Fondazione Rossini/Casa Ricordi, a cura di Alberto Zedda

Direttore YVES ABEL
Regia, Scene e Costumi PIER LUIGI PIZZI
Regista collaboratore e Luci MASSIMO GASPARON

INTERPRETI
Il Conte d’Almaviva MAXIM MIRONOV
Bartolo PIETRO SPAGNOLI
Rosina AYA WAKIZONO
Figaro DAVIDE LUCIANO
Basilio MICHELE PERTUSI
Berta ELENA ZILIO
Fiorello/Ufficiale WILLIAM CORRÒ

CORO DEL TEATRO VENTIDIO BASSO
Maestro del Coro GIOVANNI FARINA
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI
Nuova produzione

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